CASTEL SELVA PASSEGGIATA AD UN PASSO DA LEVICO

Sebbene oggi di Castel Selva rimangano solo ruderi, questo antico castello rivestì un ruolo molto importante legato al Principato Vescovile di Trento. Di Castel Selva infatti si menzionano gli sfarzi e la bellezza dei decori, quando venne destinato a dimora per gli ospiti d’onore durante il Concilio Tridentino.

Il castello è facilmente raggiungibile da Levico Terme. Da viale Roma si costeggia il lato nord del Parco delle Terme e quindi si percorre via Silva Domini fino alla Salita al Castello. Salendo verso il Castello, sopra l’abitato di Selva si piega a sinistra lungo l’antico fossato in ciottoli, che conduce ai ruderi di Castel Selva. per il ritorno invece, volendo fare un percorso ad anello, si prosegue lungo un sentiero nel bosco e, all’incrocio con la strada sterrata si piega a destra scendendo fino a via Pontara. Da qui si raggiunge il centro di Selva. Da qui si ritorna a Levico Terme percorrendo via per Selva e quindi Via de Gasparri. Tutto il tragitto è percorribile in una oretta di passeggiata.

Sebbene il primo documento ufficiale che menzioni Castel Selva risalga al 1224, in occasione della visita del vescovo di Trento Gerardo Oscasali, che richiede un resoconto dello stato della struttura, il castello ha origini molto più antiche. Si ipotizza che venne edificato nel VI secolo a protezione dei contadini dalle scorribande di Franchi ed Ungari.

Il castello fungeva sicuramente da controllo viario, infatti intercetta la via Claudio Augusta. E nel 1027 la sua storia si intreccia con quella del Principato Vescovile. Ma è nel 1226 che venne affidato ai Signori di Caldonazzo in segno di sottomissione feudale al Principe Vescovo.

Nel corso del XIII secolo la Valsugana viene messa a ferro e fuoco dal signore di Treviso Ezzelino da Romano. Nel 1275 viene occupato da Mainardo II del Tirolo, che lo restituisce alla Chiesa di Trento solamente nel 1302. I Caldonazzo-Castelnuovo detengono il feudo fino al 1340, quando viene solennemente restituito ai principi vescovi tridentini. Qualche tempo dopo i padovani da Carrara occupano Castel Selva e le rocche vicine, ma una volta sconfitti da Siccone di Caldonazzo sono costretti a cedere il castello alle truppe tirolesi.

Tanti cambi di mano vedono il castello assai danneggiato così è  Bernardo Clesio ad intervenire in modo radicale e ordina l’allestimento di un cantiere i cui lavori si svolgono tra il 1519 e il 1537. Numerosi artisti vengono ingaggiati per affrescare le stanze del castello, i soffitti vengono decorati con raffinati cassettoni e i boschi e le terre incolte attorno al maniero vengono trasformati in giardini e vigneti.

Durante il Concilio di Trento a Castel Selva furono invitati a soggiornare illustri ospiti, che poterono godere dei raffinati interventi artistici del Castello.  Tuttavia col passare del tempo l´edificio cade in rovina, e nel 1777 il principe vescovo Pietro Vigilio Thun lo cede all’Austria.

Due anni più tardi viene acquistato dal comune di Levico e gli abitanti del borgo lo smantellano per riutilizzare le solide pietre con cui era stato edificato.

Oggi del Castello rimangono solo i ruderi. Tuttavia salendo al Castello si può ammirare la vista che spazia sulla valle tutt’attorno.

Come spesso accade anche fra le mura di  Castel Selva aleggia una leggenda. E pare che sempre fra le mura del Castello passeggi ancora il fantasma della povera ma bellissima Giana.

Narra dunque la leggenda che ci un fu un tempo in cui il Signore del Castello si era fatto una tale fama di malvagità e cattiveria, che quando usciva a caccia o per fare una passeggiata i cittadini di Levico e di Selva si chiudessero in casa per non incrociarlo.  Un giorno la diciottenne Giana non fece in tempo a nascondersi. Giana era la bellissima e dolce figlia del ciabattino di Levico. Fu così che il tiranno ordinò ai suoi sgherri di rapirla e portarla al castello.

Il rapimento avvenne una domenica mattina durante la messa, con le urla dei fedeli che tentavano di aiutarla. Ma nulla valse e la povera giovane si trovò a difendersi dalle violenze del tiranno. Con il risultato di essere gettata nelle segrete del maniero e tenuta a pane ed acqua per giorni e giorni. La dolcezza della ragazza fece leva su uno dei secondini, che intenerito dalla giovane l’aiutò a fuggire.

La fuga fu assai roccambolesca, fra salti dalle finestre e arrampicate su scale ripide e mura alte. Ma alla fine raggiunse il bosco. Qui però venne inseguita dai cani e dagli uomini a cavallo, in quanto la sua fuga venne scoperta subito. Così invece di scendere verso casa la ragazza andò verso la Salina sopra Levico.

Tuttavia fu raggiunta dai suoi inseguitori che, secondo le istruzioni avute, piegarono due alti giovani larici a cui legarono polsi e caviglie della ragazza per poi mollare la presa così che il corpo della poveretta venisse spezzato a metà.

Sebbene nel tempo si è perduto il nome e la storia di questo perfido tiranno, nella memoria degli abitanti di Levico invece fino ad oggi rimane vivo il ricordo della povera Giana. In alcune notti di luna di piena, si dice che la povera ragazza si aggiri ancora in forma di spirito fra le rovine del Castello e nei boschi circostanti, in mesto lamento.

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