Vasco Brondi porta la sua “Terra” a Trento

Ha illuminato il pubblico Le Luci della Centrale Elettrica, alias Vasco Brondi, a fine aprile in concerto aTrento dove ha presentato il suo ultimo lavoro “Terra”

Acclamato da tanta stampa nazionale, presnete sul palco del concerto del Primo Maggio, Vasco Brondi pare ce l’abbia fatta ad uscire da quella nebbia che avvolge la musica intesa come indie italiana, per arrivare al grande pubblico. Di lui scrive tutta la stampa mainstream elogiando la sua musica e il suo lavoro. Ma nel mucchio anche chi invece vede un evoluzione verso un gusto più commerciale per quello che si era reso riconoscibile per una scrittura del tutto personale e di rottura.

Fatto sta che Brondi piace e lo dimostra un Teatro Sanbàpolis stracolmo in una fredda ed umida notte di primavera in una giornata infrasettimanale. Un pubblico eterogeneo che ha cantato, ballato, ascoltato e applaudito Brondi che con grande naturalezza ha dichiarato “Farò tutte le canzoni del mio ultimo disco, perchè sono qui per questo…” Non sono mancate le storiche hit, quelle con i testi che devi essere un pochino filosofo per capire, quelle in cui ci sono i riferimenti ad una società ed un mondo storto, quelle scritte nei momenti di tristezza visto che lui stesso ha dichiarato che “quando non sono triste esco di casa”

E proprio Brondi in prossimità del concerto ha rilasciato alcune dichiarazioni su “Terra”, sul suo rapporto con la musica e con il resto del mondo.

Dieci anni di carriera, quattro dischi e chilometri di strada percorsa a portare in giro la propria musica conquistandosi uno ad uno i propri fan. Cosa vuol dire essere un cantautore outsider come spesso vieni definito? e quali sono le scommesse da porsi e da vincere per proseguire il viaggio?

Credo sia possibile avere una propria strada e che possa essere profonda e popolare allo stesso tempo. È importante la libertà ma non la libertà di fare qualsiasi cosa a caso, la libertà di essere come si è.

Nelle tue canzoni metti spesso riferimenti a casa, alla tua terra, alle origini, ma ovviamente la tua professione ti porta a viaggiare molto. Dove e cosìè “casa” per te?

Amo quegli scrittori che parlano di posti che sembrano anonimi facendoli diventare leggendari per esempio Gianni Celati o Tondelli. I CCCP dicevano “Non a Berlino, a Carpi” hanno contribuito a farmi capire che Ferrara, il posto in cui sono cresciuto andava benissimo, che anche lì possono succedere le cose. Casa per me è dove riesco anche ad annoiarmi, è stato una grande fortuna crescere in un posto dove mi annoiavo moltissimo e se volevo che succedesse qualcosa quella cosa dovevo farla succedere io.

I tuoi testi hanno stile ben preciso in cui risulta immediato identificarti poichè ti contraddistingue, quale è il rapporto fra musica e parole? Arriva prima la suggestione melodica, oppure il messaggio da veicolare?

Per questo disco ho ragionato sul canto come espressione stranissima degli esseri umani. Ho lavorato molto sulla musicalità. Sono partito da delle parti musicali già definite, e anche le parole ho cercato di pensarle come uno strumento musicale, uno strumento ritmico, come fossero una batteria. Musicalmente si mischiano tamburi africani e melodie balcaniche, distorsioni e canti religiosi, techno araba e ritmi sudamericani. Il tutto modo filologicamente sbagliato, non è un disco di world music è un racconto corale. Queste musiche hanno attirato da sole i testi, le storie del disco, di fughe e di ritorni da ogni direzione verso ogni direzione. Sono storie piene di tutte le contraddizioni degli essere umani, è una lista delle sue contraddizioni, lo stesso essere umano che inventa le armi di distruzione di massa e anche le canzoni d’amore.

Qual è il tuo percorso e il percorso della tua musica?

Mi sono accorto che adesso che c’è la possibilità di sentire tantissime cose diverse su ogni piattaforma possibile ascolto le stesse cose che ascoltavo e amavo a 15 anni Battiato, De Gregori, i Ccccp, i Csi. E molta musica etnica che amo perché è musica non fatta per avere l’approvazione degli altri ma spesso per riti, per feste, per esprimere dolore o amore, ha una purezza rara. Mi ha fatto anche venire in mente che la musica è il mezzo di trasporto più veloce che c’è, senti due note e ti immagini un altro continente.

Cos’è per te la musica e cosa vuol dire per te essere cantautore oggi…?

La cosa importante che sento è che un disco dopo l’altro mi sembra di togliere uno strato in più da me e andare più nel profondo. Poi è importante continuare a guardarsi dentro e attorno ma questo vale per tutti, qualsiasi lavoro si faccia.

Qual è il tuo rapporto con il web, i social e la tecnologia? Nel senso sono un valore aggiunto a chi fa musica oppure sono un mezzo di distrazione di massa?

Ho scritto un pezzo che si intitola Iperconnessi in cui ho cercato di affrontare questo periodo digitale come si riesce a fare solo con le canzoni che possono diventare dei reportage emotivi, dei telegiornali poetici.

Qual è l’invito che fai al pubblico in occasione dei tuoi concerti?

Credo che per quanto si possa lavorare a un disco, in questo caso almeno un anno e mezzo o due, poi le canzoni trovano la loro vera voce direttamente sul palco, si assestato in furgone tra un concerto e l’altro e uscendo all’aria aperta su un palco. i concerti in un modo diverso dalla scrittura sono una possibilità di esprimersi e di liberarsi di qualcosa in modo bellissimo. Sono sempre un rito liberatorio.

Credit ph e video live Sarah Melchiori

 

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